Se non possiamo ridurre la pressione fiscale, allora perché non ci dedichiamo a migliorare
la spesa pubblica?

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Negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare del DEF, il Documento di Economia e Finanza, e non
solo perché, come dicono i critici del governo, mancano i dati programmatici, cioè gli obiettivi
macroeconomici, ma, soprattutto, per i costi del Superbonus che continuano a lievitare,
minacciando la tenuta dei conti pubblici.
Ne parliamo qui. Questo è Oikos, podcast di economia e finanza. Io sono Tommaso Di Nardo.
Pensate che il governo, prima di presentare il DEF lo scorso 9 aprile, ha approvato un decreto
d’urgenza per tagliare le gambe definitivamente al Superbonus che a marzo aveva già certificato
42 miliardi di euro di costi aggiuntivi rispetto alle stime.
Stiamo parlando del decreto 39, c.d. decreto taglia cessioni e sconti in fattura che sta creando
enormi disagi sui molti cantieri ancora aperti. Il punto è che il Superbonus ha creato una vera e
propria falla nel sistema che rischia di far affondare il bilancio pubblico.
Lo testimonia il fatto che nel DEF presentato il 9 aprile, il deficit dello scorso anno era 7,2% del Pil,
mentre dopo soli 13 giorni, il 22 aprile, l’Istat lo ha corretto a 7,4%.
Ma, forse, è bene che facciamo due conti per capirci meglio.
Lo scorso anno il nostro Pil è stato 2.085 miliardi di eruo, mentre il deficit, cioè il disavanzo, la
differenza tra entrate e uscite, è di 150 miliardi di euro. Dopo soli 13 giorni, il defcit passa a 154
miliardi di euro, cioè 4 miliardi in più, e diventa il 7,4%.
Non è cambiato, invece, il debito fermo a 2.863 miliardi di euro, il 137,3% del Pil.
Dunque, i conti sono presto fatti.
Le entrate non c’è la fanno a coprire le uscite, anci il bilancio chiude in deficit, anche perché
paghiamo molti interessi a causa dell’elevato debito ed è per questo che la pressione fiscale non
scende.
Oggi è al 42,5%. Vuol dire che il 42,5% di quello che produciamo, cioè il Pil, sono imposte, tasse e
contributi sociali che lavoratori e contribuenti versano allo Stato e che lo Stato usa per pagare i
dipendenti pubblici, le pensioni, la sanità, la scuola, la difesa, e tutti gli altri servizi pubblici, non
ultimi anche gli interessi sul debito che ammontano nel 2023 a 79 miliardi di euro.
Facciamo ancora due conti. Il Pil è 2.085 miliardi di euro. La spesa pubblica è 1.151 miliardi di
euro. Le entrate totali sono 997 miliardi di euro. Ecco che si crea un disavanzo, esattamente pari a
154 miliardi di euro. Mentre, in quei 997 miliardi di euro di entrate totali ci sono ben 886 miliardi di
euro di tasse, imposte e contributi che appunto fanno il 42,5% del Pil.
Ma quel 42,5% è solo una media. In realtà, ci sono italiani che versano molto di più del 42,5% e
altri che versano molto di meno.
Ad esempio, è importante sapere che nel Pil, il nostro Prodotto Interno Lordo, è inclusa l’evasione
fiscale. Sì, perché la verità è che nei 2.085 miliardi di euro di Pil ci sono ben 215 miliardi di euro di
economia sommersa che è quasi tutta evasione fiscale, lo dice l’Istat, non lo dico certamente io.
Allora, sempre per fare due conti molto semplici, 2085 miliardi di euro meno 215 miliardi di euro di
nero, fanno 1.870 miliardi di euro di Pil al netto del sommerso che potremmo definire Pil regolare o
legale, cioè quella parte di Pil su cui effettivamente si pagano le tasse.

Dal momento che le entrate fiscali totali sono 886 miliardi di euro, la pressione fiscale vera, come
riportato anche nel documento dell’Audizione del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e
degli Esperti Contabili, non è 42,5% ma 47,4%, cioè quasi 5 punti in più.
Così siamo più vicini alla realtà, ma anche questa è una media. Perché p calcolata sui totali. In
verità, ognuno ha la sua pressione fiscale individuale, cioè il rapporto tra tasse e reddito, solo che,
mentre per alcuni il reddito reale coincide con quello dichiarato, per altri non è così.
Qual è, dunque, la morale della storia?
Con questi conti non ha alcun senso parlare di riduzione della pressione fiscale, che, in verità,
negli ultimi anni, anche a causa delle ripetute crisi economiche, tende più a salire che a scendere,
qualunque sia il colore politico del governo. Bisognerebbe, invece, parlare di maggiore equità
fiscale e di migliore spesa pubblica.
C’è ne occuperemo qui ad Oikos, perché la vera questione non è se pagare le tasse sia bello o
meno, ma se lo Stato funziona bene o no e se no come fare per migliorarlo.
E allora torniamo qualche anno indietro. Esattamente al 1992. Ebbene, in quell’anno, uno degli
anni più difficili per l’economia italiana del dopoguerra, usciva un libretto fuori dagli schemi, un
libretto dove il come fare era spiegato con grande minuzia. Sto parlando di SPENDERE MEGLIO
E’ POSSIBILE, scritto da Luca Meldolesi e pubblicato dalla casa editrice IL MULINO nel 1992.
Chi non ricorda quel famoso mercoledì nero, il 16 settembre del 1992, in cui fummo costretti a
svalutare la moneta nazionale, che allora era la lira, del 7%, mentre la borsa di Milano perdeva il
5% tanto da costringere il governo Amato a un prelievo forzoso sui conti degli italiani per evitare il
tracollo.
Quel libretto si apriva con la proposta di istituire una commissione di valutazione retrospettiva dei
risultati della spesa e delle politiche pubbliche presso la Camera dei Deputati e il Senato della
Repubblica.
“Mentre il problema dell’ammontare della spesa pubblica – scrive Meldolesi a pag. 16 – (delle
entrate tributarie insufficienti, del debito accumulato, del deficit corrente) ha un ruolo di primo piano
nella vita del paese, nessuno – o quasi – si occupa seriamente dei risultati concreti di tale spesa.
Qui si ragiona a lume di naso, – prosegue Meldolesi – dando spesso per inevitabile
un’impressionante (e forse crescente) livello di inefficienza: e così i danni della mancata
valutazione delle spese e delle politiche pubbliche a tutti i livelli dell’amministrazione sono
incalcolabili.”
“Più esattamente – continua Meldolesi a pag. 17 – bisogna studiare i passi necessari per spostare
l’interesse sui risultati raggiunti e sulla loro economicità. Ciò significa, innanzitutto, rendersi conto
del fatto paradossale secondo cui, mentre ciascuna famiglia italiana si ingegna ogni giorno a far
quadrare la propria equazione di obiettivi e disponibilità, la comunità nazionale non si preoccupa
davvero di valutare la propria; …”.
Sono passati più di trenta anni da quel terribile 1992 – ed è incredibile come queste parole
risuonino così attuali e al tempo stesso così inquietanti -, ma cosa è successo nel frattempo?
Due cose in particolare:
– A livello nazionale ed europeo sono stati introdotti i parametri di Maastricht e il Patto di
Stabilità, cioè meccanismi di controllo quantitativo della spesa; poi si è perso tanto tempo
nel parlare inutilmente di spending review e di costi standard;
– A livello locale sono stati creati i nuclei di valutazione con il risultato di aumentare i costi per
i compensi ai valutatori la cui unica funzione è di assegnare la produttività ai dipendenti.

Oggi, evidentemente, riferendoci alla spesa pubblica, continuiamo a spendere male con la
differenza che spendiamo anche di più, molto di più, a causa del Superbonus e non solo.
Qui ad Oikos proveremo a fare un viaggio nei conti pubblici italiani e cercheremo di capire
perché il paese fa tanta fatica a quadrare il bilancio e, soprattutto, a funzionare meglio.
Nella prossima puntata ci soffermeremo sull’economia sommersa e cercheremo di capirci
qualcosa di più.
Buona settimana e buona economia da Oikos.

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